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«Sepegrepetipi non vuol dire nulla. Vuol dire tutto». Si apre così l'introduzione del libro, curato da Marina Giovannelli, nel quale un gruppo di donne ha affrontato il problema della lingua, della sua origine nel nostro vissuto. Continua la Giovannelli: «All'inizio sembrò facile: che cosa ci vuole a parlare della propria lingua? Dopotutto è quella che conosciamo da sempre, descriverla sarebbe stato un gioco perfino troppo puerile. Forse definirla poteva creare qualche problema, dato che nel tempo si è mescolata con altre, ma in fondo di lingua materna si trattava. Da questo aggettivo "materna", sono invece divampate le questioni: "materna" o "dell'infanzia", "nativa" o "della comunità", "dell'origine" o "primaria"?». Su questi temi si sviluppa il confronto. Sensazioni, ricordi, certezze. Il rapporto con una lingua, la lingua della comunità, la lingua considerata subalterna, dei contadini, della miseria, quella da superare per aspirare ad una migliore collocazione sociale; quella da parlare con i propri vecchi ma non con i propri figli. Lingue minoritarie e dialetti, appresi succhiando il latte materno, vissuti come una sfera intima da proteggere dall'incalzare di quella lingua ufficiale che ci apre si al mondo ma che spesso, soffocando la lingua materna, porta ad una negazione della parte più intima del sé, al rischio di afasia. Sepegrepetipi è un gioco infantile, un modo per proteggere i segreti del proprio agli "... occhi dell'ottusità del mondo".
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