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Abitare la città è pratica complessa, ed spesso eccede il manufatto che chiamiamo casa, lo spazio che chiamiamo vicinato, rione o quartiere. Al centro di questa ricerca è posto un caso di micro-storia, centrato sull'apparente ordinaria vicenda di tredici case e dei/delle loro abitanti nella prima periferia di una città del Nord Est d'Italia, a partire dal 1949. La ricerca si muove intorno alle persone e alle loro storie attraverso numerose e ricche interviste, ma ad emergere dal racconto sembrano essere soprattutto le case, intese non solo come manufatti che contengono le nostre vite, ma come dispositivi di pratiche che prendono significato dalle reti di relazioni tra le persone e con il territorio circostante: se abitare vuol dire relazione, relazione vuol dire "mettere qualcosa in comune", e "mettere qualcosa in comune" implica l'assunzione di responsabilità verso gli altri con cui si condivide. Se poi si aggiunge un ulteriore elemento che la ricerca mette in luce, e cioè che gli altri non sono un'entità neutra, ma sono/siamo uomini e donne, diversi e allo stesso tempo complementari, allora tutto si tiene: abitare un luogo responsabilmente e in una condizione di benessere non è possibile se non si rompe la catena dell'omologazione, della neutralità che cancella le diversità e nasconde le discriminazioni. "Abitare" diventa quindi una relazione responsabile che nel riconoscimento delle differenze si arricchisce di nuovi punti di vista, di nuove problematiche, ma anche di nuove possibili soluzioni, di nuovi possibili spazi per attivare pratiche che possono diventare politiche. Ed è così che una piccola storia di case, in un punto altrettanto piccolo della carta geografica, può diventare elemento utile per informare la grande storia e per parlare ad una città altrimenti muta.
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