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Paolo di Tarso è finalmente al centro del dialogo ebraico-cristiano. A lungo, diciamolo francamente, ne è stato escluso come una presenza imbarazzante, quasi un ostacolo per pensare di poterlo rimuovere. La visione tradizionale cristiana ne faceva un "convertito" e quindi un apostata del giudaismo, se non il nemico giurato della Torah. Come tale lo ha trattato (e ignorato) anche la tradizione ebraica (almeno fino a tempi recenti con i primi tentativi di una rilettura della sua figura). Ma quella di Paolo non è una "conversione" bensì una "vocazione" che merita di essere riconsiderata più attentamente nella sua complessità. Al pari di Gesù è nato, vissuto e morto da ebreo, per la semplice ragione che nel primo secolo il cristianesimo ancora non esisteva come religione autonoma e distinta dal giudaismo, ma si presentava come movimento apocalittico e messianico all'interno del giudaismo. L'esperienza di Paolo (per quanto singolare) appartiene alla dialettica interna dei molti gruppi e movimenti presenti nel giudaismo della sua epoca.
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